Non esistono uomini perfetti, esistono uomini da perdonare
Recensione degli spettacoli:
“Non esistono uomini perfetti, esistono uomini da perdonare”. E’ una delle frasi contenute nell’intenso Rembrandt, o del padre misericordioso, il dramma scritto da Sergio Di Benedetto, presentato in anteprima dalla compagnia Exire nella chiesa milanese di Santa Marcellina e San Giuseppe.
L’invito ricevuto dal giovane scrittore, assistente di letteratura presso l’Università della Svizzera Italiana, oltre che autore di molte opere teatrali di genere sacro e vincitore del premio nazionale di drammaturgia “Teatro Cinema e Shoah”, promosso dall’Università di Tor Vergata, con il testo E noi salveremo la nostra storia, l’invito, dicevo, è stato un dono che ha permesso di ribadire che Sergio Di Benedetto è personalità di rilievo nel novero degli scrittori di teatro italiani.
Suo è pure Rachele, la moglie, che la rivista “Teatro” del Gatal, ha recentemente pubblicato, e spicca tra i quasi cinquecento testi finora editi dall’associazione lombarda.
Rembrandt, dice Sergio, gli è stato ispirato da un soggiorno in Olanda, a Leida, la città ove il 15 luglio 1606, nacque il più grande pittore del Seicento olandese. L’ispirazione è combaciata con l’anno della misericordia indetto dal papa, e, nel testo, con la parte finale della vita assai movimentata dell’artista.
Il dramma inizia nella casa del pittore, ormai anziano e stanco, che vive con la figlia Cornelia, avuta da una governante dopo la morte della moglie Saskia che gli aveva dato due figli, già scomparsi. Rembrandt è oberato di debiti, fatti per i vari e ambiziosi cambiamenti di abitazione, per le tante spese e per i committenti che non sono più convinti dello stile di pittura innovativa operata dal maestro, dopo quattrocento quadri e centinaia di disegni, incisioni e acqueforti da lui creati. Lo visita l’ultimo allievo della sua scuola, Aert De Gelder, il quale, deluso e attirato da altre accademie, è venuto a dire che lo lascerà. Irrompe anche il benestante Harmen Becker, un irato creditore che reclama i suoi soldi, o almeno il quadro che Rembrandt sempre gli promette di dipingere, e mai realizza.
Lui, in segreto, è impegnato a creare un’opera che lo intriga nel profondo dell’anima.
E’ la parabola evangelica del Figliol prodigo, in cui il pittore si riconosce, identifica i suoi errori e sembra domandare il perdono per quanto commesso, come fa il figlio peccatore del racconto di Luca. Ora il tempo vitale è quasi giunto al termine, e Rembrandt lo intuisce; Cornelia gli è vicina, lo accudisce, ma gli rimprovera di non averla mai ritratta nei suoi quadri, cosa che il padre ha fatto abbondantemente con l’amata Saskia. Insomma, le accuse arrivano da ogni parte e il pennello indugia sulla Ritorno del figliol prodigo.
Tela che vede il Padre accogliere misericordioso il figlio pentito, mentre il fratello osserva severo la scena. Finalmente il creditore Aert, dopo alterni tentativi, riesce a fargli scoprire il dipinto segreto, e da consumato collezionista capisce che è un capolavoro. Però, le mani del vecchio genitore che si posano sul figlio implorante in ginocchio dinanzi a lui, sono come di due persone diverse, quasi un segnale, dice Aert, di tramonto artistico. No, risponde Rembrandt, sono volute mani di uomo e di donna, poiché Dio è Padre e Madre insieme: nella tenerezza e nella pietà, coltivati dal Padre nell’attesa di donare il perdono al prodigo, e il pittore spera avvenga per sé stesso. L’opera non verrà data al creditore, resterà tra i pochi averi di Rembrandt, che a lui destina il Simeone dopo avere tenuto in braccio Gesù Bambino e ringrazia per il dono della salvezza conosciuta, e può morire in pace. Ciò che avviene per il grande artista olandese il 4 ottobre 1669.
Lo spettacolo, pur nella estemporanea sede della chiesa, impatta in virtù della sincerità del tema e dei dialoghi molto belli. È teatro di parola, secondo lo stile dell’autore, i significati e le illuminazioni contaminano la vicenda del pittore di Leida, la sua vita e le vicissitudini che l’hanno segnata, con l’accostamento al dipinto famoso nel quale Rembrandt si riconosce e lascia a testamento della misericordia del Padre.
Il pittore era calvinista, ma cristiano e acuto lettore biblico, testimoniato dai suoi quadri, seppure fosse di grandi ambizioni e altrettante avventure mondane. Interessante, dunque, conoscere l’artista olandese, Di Benedetto lo ha svelato come una novità, soprattutto ne ha tratto l’avvertimento meditativo per l’anno giubilare. Lo spettacolo visiterà dapprima il Ticino svizzero, poi le tappe italiane confermeranno il valore sacrale di un teatro che incide con intelligenza d’arte nel cuore di chi vuole e sa ascoltare.
Il quartetto degli attori, diretti da Fabio Sarti che interpreta con piglio deciso il creditore di Rembrandt, si cala nei personaggi storici. Angelo Zilio è il sofferto artista, peccatore bisognoso del perdono come tutti, convincente nel tratteggiarlo nei diversi stati d’animo. Cornelia, la figlia illegittima, la rende Federica Ombrato, brava e pure ambigua, come lo è stata la propria nascita. Infine, Alessio Gigante, interpreta l’allievo fuggito, ma ritornato dopo avere constatato, rispetto ad altri, la qualità altissima del suo maestro.
Dalle panche sono partiti gli applausi verso il cast e il bravissimo autore.